Natzweiler-Struthof

La giornata è davvero molto fredda e la strada è leggermente ghiacciata e più saliamo più il freddo si fa sentire, la nostra meta è Natzweiler, un piccolo paesino arroccato sui monti Vosgi a cinquanta chilometri da Strasburgo.

Cancello d’entrata

Siamo sulla via per l’ex campo di lavoro e concentramento di STRUTHOF, Francia, dove a partire dal 1941 i detenuti erano impiegati nella vicina cava di granito rosa, e poi per l’industria bellica nazista. Il lager fu anche teatro di sperimentazioni mediche.

Purtroppo il campo di Struthof non può essere visitato in questa stagione perchè chiuso e ci dobbiamo accontentare di vederne l’esterno, con l’immancabile cancello d’entrata e il reticolato che lo circonda. In ogni caso fuori dalla recinzione vi sono alcune strutture che ne facevano parte e che possiamo in qualche modo visitare pur sempre dall’esterno.

Visuale dall’esterno

La località montana in cui ci troviamo all’inizio del Novecento divenne famosa per le piste da sci, cosicchè vi fu costruito un albergo con annessa dependance e sala da ballo per i turisti.

L’ex albergo diventato Kommandantur

Nel 1941 la struttura venne requisita dai nazisti per farne la Kommandantur del campo che costruirono poco distante, i locali adibiti ad albergo divennero gli uffici delle SS e laddove si trovava la sala da ballo vennero installate col tempo una camera a gas e dei forni crematori.

Camera a gas

Il campo fu operativo dal 21 maggio 1941 fino al settembre del 1944, quando venne evacuato dalle stesse SS a causa dell’arrivo delle truppe americane, il 23 novembre 1944.

Il campo fungeva da centro amministrativo per circa 70 sottocampi, più o meno grandi, che complessivamente furono luoghi di deportazione per circa 52.000 persone di cui 35.000 non passarono mai per il campo centrale.

Alcuni dei numerosi sottocampi di Natzweiler-Struthof furono teatro delle terribili marce della morte e furono liberati solo nella primavera del 1945.

Partigiani e prigionieri politici furono essenzialmente le vittime del campo per un totale stimato di circa 40.000 persone provenienti, oltre che dalla Francia stessa, dalla Polonia, dai Paesi Bassi, dall’Unione Sovietica, dalla Norvegia e dalla Germania. 

Le donne deportate non furono molte ma è significativa la storia di quattro di loro che il 4 luglio del 1944 furono fucilate perchè appartenenti all’organizzazione britannica Special Operations Executive (SOE) che compiva azioni di spionaggio e coordinamento delle attività partigiane in terra di Francia.

Nella primavera del 1943 vennero qui tradotti dal campo di Auschwitz 86 ebrei subito inviati nelle camere a gas, per “garantire all’istituto universitario anatomico tedesco un sufficiente numero di ossa per realizzare una collezione antropologica sulle diverse razze umane.” Il campo inoltre è tristemente noto come uno dei luoghi di detenzione dello scrittore Boris Pahor di cui ricordiamo il volume Necropoli per l’editore Fazi.

Lapidi in memoria dei prigionieri gasati.

Naturalmente è nostra intenzione farvi ritorno per poterlo visitare adeguatamente e rendere omaggio a tutti coloro che vi hanno perso la vita.

Theresienstadt: “Un regalo del Fuhrer”

  Il nostro lavoro di documentazione fotografica su ciò che rimane ad oggi dei campi di concentramento e sterminio nazisti riprende in un torrido inizio di luglio ed il primo luogo che decidiamo di visitare è l’ex Ghetto di Terezin nella Repubblica Ceca.   Scendiamo nella vicina cittadina Litoměřice anch’essa, ci viene spiegato da una gentilissima dipendente dell’ufficio del turismo, non priva di “eredità” naziste e così ci ritroviamo a visitare, praticamente da soli, dei sotterranei della cittadina,

IMG_3422-2
Sotterranei a Litoměřice
Continua a leggere “Theresienstadt: “Un regalo del Fuhrer””

Vescovi a Dachau

Dachau

Il “Reichskoncordat” fra la Santa Sede e la Germania nazista, fu firmato il 20 luglio del 1933 e successivamente ratificato il 10 settembre dello stesso anno.

Firmatari per la Santa Sede l’allora cardinale Eugenio Pacelli, futuro papa Pio XII e per la Germania il presidente tedesco Paul von Hindeburg.

L’obbiettivo della Santa Sede era quello di garantire alla chiesa la sua libertà e la garanzia dell’assistenza spirituale, dato che il regime nazista non esitava ad incarcerare i sacerdoti cattolici e tantomeno a chiuderne giornali e a perquisirne i circoli, quello dei nazisti era innanzi tutto assicurarsi la lealtà dei vescovi attraverso un giuramento, garantendosi che tutti i preti fossero tedeschi e quindi soggetti alle leggi imposte dai nazisti.

Continua a leggere “Vescovi a Dachau”

IL CASTELLO DI HARTHEIM OVVERO IL LUOGO D’AVVIO DEL PROGRAMMA T4 DA PARTE DEI NAZISTI.

IMG_0439
Schloss Hartheim

Berlino 1 Settembre 1939, lo stesso giorno in cui i tedeschi iniziano l’invasione della Polonia, che tanta morte e distruzione ha portato nel paese europeo, Hitler autorizzò il Reichsleiter Bouhler e il dottor Brandt ad avviare il famigerato programma eutanasia indicato con nome di AKTION T4, con le seguenti parole:

“Il Reichsleiter Bouhler e il dottor Brandt sono incaricati, sotto la propria responsabilità, di estendere le competenze di alcun medici da loro nominati, autorizzandoli a concludere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio, previa valutazione critica del loro stato di malattia”.

Alkoven, Austria Superiore, 2 novembre 2018, quello che ci troviamo dinnanzi è un bel castello rinascimentale, il Castello di Hartheim, in lingua tedesca Schloss Hartheim ma chè fu anche il luogo dove fra il 1940 e il 1944 si è realizzato uno fra i più terribili ed inquietanti programmi progettati e realizzati dai nazisti, tristemente passato alla storia con il nome di Aktion T4.

Continua a leggere “IL CASTELLO DI HARTHEIM OVVERO IL LUOGO D’AVVIO DEL PROGRAMMA T4 DA PARTE DEI NAZISTI.”

Non solo ARBEIT MACHT FREI

_L7X0979
Auschwitz

Ogni qual volta si legge un libro scritto da un sopravvissuto ai lager nazisti, ogni qual volta si parla con un sopravvissuto, la prima immagine che sempre viene evocata è quella dell’arrivo al lager, a prescindere di quale lager si tratti.

E’ l’immagine di cancelli che si aprono, porte infernali che si sono spalancate verso un’unica direzione per milioni di persone in tutto il territorio del Terzo Reich. 

Ogni dettaglio nei luoghi dello sterminio nazista era pensato, progettato affinché chi vi giungesse avesse chiaro sin da subito che da quelle porte non sarebbe mai uscito vivo e che in quei luoghi gli unici compagni erano il dolore e la sofferenza, e l’unica speranza la morte nella sua funzione liberatrice.

Il primo e più tristemente noto cancello che abbiamo fotografato durante i nostri viaggi è quello di Auschwitz su cui campeggia la scritta ARBEIT MACHT FREI : IL LAVORO RENDE LIBERI, voluta dal comandante Rudolf Höß  e come noto commissionata al prigioniero polacco 1010 Jan Liwacz di professione fabbro, che in segno di lotta silenziosa, compose la lettera “B” rovesciata.

Continua a leggere “Non solo ARBEIT MACHT FREI”

Puzzle of Europe

IMG_9280

Mentre ci spostiamo fra una bancarella e l’altra del mercatino di Wrocław ci fermiamo increduli davanti a quello che vediamo esposto in compagnia di vecchie medaglie, colbacchi con la stella rossa, orologi e … tutto ciò che di solito si trova in questi luoghi: una vecchia scatola gialla consumata ma non troppo dal tempo attrae la nostra attenzione.

Su di essa campeggia la scritta “Puzzle of Europe”! Apriamo la scatola e come promesso dalla scrittta sul coperchio ci troviamo di fronte ad un puzzle, un puzzle del 1940. Gli indizi a proposito del contenuto non finiscono qui, infatti le scritte sulla scatola  The Nazi have battered their crokered signinto the face of Europe, shaffering nearly all of it exept Britain. The task that lies before us is that whatever the cost, we must PUT EUROPE TOGETHER AGAIN!“ ci chiariscono che ci troviamo di fronte ad un rompicapo dal chiaro messaggio anti-nazista. 

 

IMG_9287

Il nostro gioco da tavola è stato prodotto in Nuova Zelanda, è composto da 256 pezzi a forma di svastica ed è completato da una mappa dell’Europa. Una volta assemblato, il puzzle, mostra una mappa dell’Europa con i confini esistenti nell’estate del 1940, prima della caduta della Francia.

IMG_9283

E’ curioso che nella scatola sia contenuta anche una mappa dato che il puzzle fu inventato proprio da un cartografo inglese: John Spilsbury nel 1760 che tagliò una mappa di legno dell’Impero britannico in pezzi in modo che i figli degli aristocrazia potessero apprendere la geografia delle terre governate dalla Gran Bretagna. L’utilizzo di questo gioco a scopo didattico ebbe grande fortuna e a partire dalla fine del XVIII vennero creati puzzle dai temi più leggeri e divertenti.

IMG_9286

Tornando al nostro vale sicuramente la pena soffermarsi anche sulla scritta “The greatest Jig-saw problem of the age” Il più grande rompicapo dell’epoca ad indicare la drammaticità e pericolosità di quanto stesse accadendo in Europa.

E’ davvero un oggetto inconsueto questo nostro puzzle: un piccolo gioco capace di veicolare una grande lezione di storia e libertà.

Auschwitz oltre Auschwitz

Logo FB

Quando si parla del campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau si parla di una superficie di oltre 40 km quadrati che comprendeva, oltre ai tre campi principali (Auschwitz, Birkenau e Monowitz), più di cinquanta sottocampi di cui oggi possiamo visitare quanto rimasto grazie al lavoro di Agneska Molenda e Dagmar Kopijasz e della fondazione da loro creata la Foundation of Memory Sites Near Auschwitz-Birkenau”.

L1030386

 

Di Agneska e Dagmar, compagni nella vita, colpisce la passione con cui condividono e lavorano a questo progetto che permette ai visitatori più attenti e preparati di visitare una sorta di “Auschwitz oltre Auschwitz” cioè quei luoghi che gravitano intorno al più noto museo divenuto meta, sopratutto negli ultimi anni, di milioni di pullman pronti a scaricare turisti da ogni dove.

IMG_7983-2

 

La Fondazione è nata nel 2013 e si propone di salvaguardare i luoghi che facevano parte del perimetro del campo di Auschwitz-Birkenau, che oggi sono prevalentemente in mano ai privati, e gli oggetti rinvenuti nei siti.

IMG_7951-2

“Molto spesso”, raccontano Agneska e Dagmar, gli abitanti della zona ci consegnano oggetti e manufatti che ancora rinvengono qui intorno o che conservano nelle loro case”.

Uno degli oggetti più commoventi qui rinvenuti dice Agneszka è una piccola statuina in ceramica raffigurante Mickey Mouse, sicuramente appartenuta ad un bambino ucciso nel lager.

IMG_7976-2

La fondazione gode fra l’altro del patrocinio del Museo di Auschwitz-Birkenau: ”Il patrocinio del museo ha un significato speciale per noi” ci dice la coppia”.

IMG_8021-3

Inizia così in loro compagnia il nostro viaggio oltre Auschwitz presso il villaggio di Budy – Bor, dove si trova la sede della fondazione e del piccolo ma curatissimo museo. 

Nel marzo del 1941 i nazisti procedettero allo sfollamento della popolazione che si trovava in loco e alla distruzione della maggior parte delle abitazioni per far spazio alla costruzione di edifici residenziali per le SS, caserme, granai e fienili, il nuovo campo era infatti destinato alla coltivazione di piante e all’allevamento di bovini e suini. 

Inizialmente gli internati, prevalentemente inviati dal campo di Auschwitz da cui quest’ultimo dipendeva, erano polacchi, successivamente si aggiunsero francesi, belgi, cechi, russi ed ebrei sia polacchi che greci. 

Le condizioni di vita non differivano da quelle del campo principale ed il luogo fu teatro di atrocità inenarrabili, come nell’ottobre del 1942, quando si consumò ad opera delle sorveglianti, il massacro a colpi di bastone e asce di circa 90 prigioniere. Budy-Bor fu evacuato nell’autunno del 1944.

La tappa successiva è a pochi km, infatti dopo circa quindici minuti di automobile arriviamo nella cittadina di Brzeszcze, poco distante dalla miniera di carbone di Jawischowitz, considerata fondamentale durante  lo sforzo bellico dai vertici delle SS. Basti pensare che nell’agosto del 1942 vennero inviati a Jawischowitz prigionieri dal campo di Auschwitz-Birkenau.

giusta

 

Date le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti i prigionieri questo sub-campo era considerato un luogo di punizione. Anche qui come nel lager principale si tenevano le temutissime selezioni che conducevano alle camere a gas. Il campo fu evacuato con una delle terribili marce della morte nella notte fra il 18 e 19 gennaio 1945. La miniera di Jawischowitz forniva anche il campo di Monowitz, centro nevralgico del colosso chimico I.G. Farbenindustries e tristemente noto per essere stato il luogo di detenzione dello scrittore italiano Primo Levi. 

A partire dal 1941 vennero inviati qui da Auschwitz un numero sempre maggiore di prigionieri.  Nel dicembre del 1942 vi erano 3500 deportati, nel 1943 il numero era salito ad oltre 6000 e nel luglio del 1944 i prigionieri erano oltre 11.000.

La percentuale degli ebrei nell’autunno del 1943 era di circa il 70% e  salì nella primavera del 1944 al 90%. Si stima che il numero di deportati che ha perso la vita a Monowitz sia di oltre 10.000 persone. Anche questo campo venne evacuato il 18 gennaio 1945 quando i prigionieri in grado di camminare furono incolonnati e inviati a piedi presso i campi di Mauthausen e Buchenwald.

Fa parte del patrimonio della fondazione un’altro piccolo museo, che ha sede nello stesso stabile occupato dal Book Shop che si trova di fronte all’ingresso principale di Birkenau, dove sono raccolti innumerevoli artefatti provenienti dal campo di Monowitz fra cui ciò che rimane di una porta che lo stesso Primo Levi ricorda nel suo romanzo “Se questo è un uomo.”

IMG_8007-2

Proseguiamo il nostro viaggio sempre accompagnati da Agneska e Dagmar e raggiungiamo il sito di Raisko, noto per essere stato sede di alcune coltivazioni sperimentali allo scopo di creare delle piante in grado di produrre gomma. Il personale qui assegnato era prevalentemente femminile ed altamente qualificato, visitiamo ciò che è rimasto delle serre in cui si svolgeva il lavoro delle detenute. Anche qui l’evacuazione avvenne il 18 gennaio 1945.

_I5I5255

Visitiamo infine proprio dietro alle mura dell’attuale museo di Auschwitz-Birkenau la zona chiamata delle Cantine ovvero un enorme edificio in legno, costruito dai prigionieri fra il 1941 e il 1942, dove erano dislocate le cucine e la mensa per le SS che funzionerà sino al 1945.

_I5I6924

Salutiamo e ringraziamo Agneska e Dagmar, non solo per la gentilezza e l’ospitalità che ci hanno riservato ma sopratutto per l’impegno profuso a salvaguardia della memoria per le generazioni future. Ripartiamo più sbigottiti che mai, emotivamente esausti.

Auschwitz oltre Auschwitz è stato una esperienza estremamente interessante tanto quanto lo sono state ogni volta le visite al sito principale.

 

Video realizzato dalla fondazione nel sito delle Canteen Kl Auschwitz.

Tarnów: il museo che ancora non c’è …

_89A8714

Durante il nostro  ultimo tour della Polonia decidiamo di fare tappa a Tarnów la “Perla del rinascimento” caratterizzata da un’atmosfera colma di fascino Galiziano. 

La cittadina a pianta medioevale, di cui si possono scorgere ancora frammenti delle vecchie mura difensive, ci accoglie con i suoi begli edifici gotici e rinascimentali, ma noi non siamo qui per fare i turisti ma perché abbiamo un appuntamento davvero speciale: ad attenderci nella piazza principale luminosa e colorata, brulicante di vita è l’imprenditore mestrino Renato Rossetto che qui ha realizzato un progetto al contempo ambizioso e filantropico.

_89A8768

Andiamo con ordine, la vicenda ha inizio circa quaranta anni fa quando Renato incontra nel suo hotel di Mestre la bella Malgorzata, polacca di Tarnów, in vacanza in Italia. Come nella migliore delle favole i due si innamorano e convolano a nozze. Dopo il matrimonio i due giovani si recano così spesso a Tarnów, che Renato decide di ampliare le sue attività imprenditoriali aprendo proprio nel cuore della cittadina, un centro commerciale.

Ciò che accadrà di lì a poco Renato e Malgorzata proprio non potevano immaginarselo neanche lontanamente ed è lo stesso Renato a raccontarcelo nell’intervista che ci concede mentre visitiamo il suo “Yiddisher Huiz”.

F.: Buon giorno Renato, e grazie del tuo invito. Vuoi raccontarci che cos’è il progetto “Yiddisher Huiz” e di che cosa si occupa la fondazione Margherita e Renato Rossetto qui a Tarnów?

_DSC0997

R.: Buon giorno Federica, grazie dell’occasione, sono orgoglioso di presentare questo progetto, che è un progetto infinitamente più grande del sottoscritto, che prende il nome di “Yddischer Huiz” ossia la casa degli yiddish, in cui chiunque potrà entrare per vedere come vivevano, prima del nazismo gli ebrei della Shoah. 

F.: E come pensi concretizzare questo tuo progetto?

R.: Il progetto si concretizzerà nelle sale del museo che avete visitato, formato da tre edifici originali che ho acquistato e ristrutturato completamente e che affacciano sulla piazza principale.

_DSC0989

Vorrei che questo museo rendesse omaggio al popolo ebraico, che è stato tanto ingiustamente devastato.

F.: Siamo non lontani da Auschwitz, luogo per eccellenza della memoria e del ricordo. Che rapporto vedi fra questi due luoghi, sono due luoghi che secondo te potranno coesistere, dialogare?

R.: Auschwitz ci riporta alla dimensione della morte, della tragedia, con questo progetto noi qui vogliamo ricordare la dimensione della vita. Penso saranno complementari nel senso che chi andrà ad Auschwitz potrà venire anche qui e qui potrà conoscere come gli ebrei vivevano prima Shoah, sino al 1930.

F.: Ci hai raccontato che cos’è il progetto “Yddischer Huiz”, la Casa degli Yddisch, ci hai raccontato e fatto visitare il museo ma adesso vorremmo capire meglio perché tu, Renato Rossetto, cattolico, imprenditore italiano, ha deciso di dare una voce ai martiri della Shoah?

Ciò che mi è accaduto è un fatto davvero insolito, infatti mentre stavo costruendo un centro commerciale ho ritrovato nelle fondamenta degli edifici dei dollari e delle sterline che erano state nascoste nel muro dietro ad alcuni mattoni.

IMG_8789-2

Al momento del ritrovamento mi sono trovato a vivere una sorta di esperienza extracorporea, in cui ho avuto la sensazione di incontrare l’uomo che li aveva nascosti ed alcuni suoi amici che mi hanno accolto e che in qualche modo mi ha chiesto di non dimenticarli. In quel momento ho capito che non vi sarebbe stato nessun nuovo centro commerciale ma che quelle case un tempo abitate da ebrei sarebbero diventate un museo, un museo della vita, dedicato alla loro vita, alla vita degli ebrei vittime della Shoah.

F.: Quindi a quel punto il tuo business si è trasformato in qualche cosa di completamente diverso, ha perso il suo carattere commerciale ed ha assunto per così dire una forma più spirituale, filantropica…

R: assolutamente si! Da quel momento ho capito che mi era stata affidata una missione, che ero stato scelto, sono diventato uno strumento e per questo motivo ho creato la Fondazione , perdendo quindi totalmente la proprietà, Fondazione che è vincolata a realizzare il museo della vita ebraica, fino al 1930 e non oltre, perché oltre c’è Auschwitz, dove come abbiamo detto si commemora la morte, qui si dovrà ricordare la vita.

F.: Quindi secondo te un ipotetico viaggiatore dovrebbe  prima visitare Tarnów e poi Auschwitz oppure il contrario?

R.: entrambe le cose oppure rinunciare ad Auschwitz!

F.: Rinunciare ad Auschwitz? E’ un’affermazione molto forte, perché rinunciare ad Auschwitz?

R: Perchè quando si saprà come sono vissuti non si potrà sopportare come sono morti.

F.: Ma non si può dimenticare, non si deve dimenticare…

R.: No, assolutamente, io ritengo che la Shoah sia la cosa più grave che sia accaduta all’umanità dopo il diluvio universale!

Il mio è un impegno importante e concreto, trovo difficoltà a realizzarlo perché secondo me la Comunità Ebraica è come gelosa, e l’intromissione di un cristiano anche se ben disposto sembra non essere ben accetta. Tant’è vero che il museo è pronto già da dodici anni, vuoto, ed io cerco disperatamente con tutte le mie forze di coinvolgere qualsiasi comunità… Ho avuto tanti pareri favorevoli ma neanche un centesimo.

_DSC1003

F.: Si, perché ricordiamo che qui tutto è stato fatto a tue spese, senza nessuna sovvenzione, giusto?

Assolutamente si! E ripeto con la creazione della Fondazione ho perso totalmente la proprietà.

_DSC1034

F.: Erano molti gli ebrei a Tarnów prima della guerra?

R: Qui gli ebrei erano più o meno  la metà della popolazione, e fra morti in loco e deportati parliamo di circa quaranta mila persone alle quali e non solo a loro ma a tutti i sei milioni di ebrei assassinati dai nazisti intendo dare “una casa” con questo progetto.

_DSC1005

F.: Grazie Renato per aver condiviso con noi questo tuo progetto davvero speciale e per averci fatto visitare questo luogo che speriamo presto diventi ciò che tu hai immaginato.

R.: Grazie a te ed Aldo per essere arrivati sino a qui e per l’occasione di poter condividere il mio lavoro.

_DSC1028

Incontrare Renato ed il suo progetto è stata davvero un’emozione speciale, lo salutiamo e mentre rientriamo a Cracovia non riusciamo a smettere di pensare a quante energie fisiche e mentali questo intraprendente e visionario mestrino ha profuso per questo suo lungimirante progetto.

Per chi chi volesse approfondire segnaliamo il suo sito.

 

 

 

 

 

Tadeusz Słowiaczek e la Cap Arcona

La determinazione e la fede incrollabile negli ideali del nazionalsocialismo sono senza dubbio due fra gli elementi che più impressionano chi come noi si interessa agli eventi accaduti durante la seconda guerra mondiale.

Prova ne è, senza alcun dubbio, anche la storia del piroscafo Cap Arcona che si è intrecciata con le vite di moltissimi deportati del campo di Auschwitz, di cui il più noto è senza dubbio Benjamin Jacobs, autore del libro “Il dentista di Auschwitz” per le edizioni Gingko.

Ma quello che vogliamo raccontare qui è il modo in cui noi abbiamo conosciuto la storia della nave tanto cara al potente ministro della propaganda, Joseph Goebbels, che:

la volle come set per un colossale sulla tragedia del Titanic, al fine di dimostrare l’incompetenza e la vigliaccheria degli ufficiali inglesi” (1).

193-2

 

Anche la storia della Cap Arcona e del suo tragico destino ci è venuta in qualche modo a cercare lungo il nostro percorso di studi sui campi campi di concentramento e sterminio nazisti in territorio polacco.

In particolare la storia di questo transatlantico è collegata alla morte di alcuni prigionieri del lager di Auschwitz, fra cui quella di Tadeusz Slowiaczek. Ma chi era quest’uomo e perché noi lo abbiamo per così dire conosciuto?

Il nostro lavoro nel tempo si è spostato dall’aspetto più strettamente iconico-fotografico a quello più legato alle storie e alle vite dei prigionieri che furono, insieme ai loro aguzzini, attori principali della vita del più famoso e famigerato campo di Auschwitz.

Słowiaczek, Tadeusz 1069 i

Lettera inviata da Tadeusz alla famiglia il 31 gennaio 1943

Abbiamo raccolto centinaia di lettere di prigionieri polacchi, gli unici che praticamente potevano scrivere alle famiglie e fra queste anche quella di Slowiaczek.

Come per tutti gli altri prigionieri di cui possediamo delle lettere abbiamo iniziato una ricerca scoprendo che:

Tadeusz SŁOWIACZEK era nato il 28 agosto 1919 e che il 10 gennaio 1940, all’età di ventuno anni, fu arrestato assieme ai fratelli Karl (con il quale avrà in comune il tragico destino) e Franciszek.

Scan 02
Elenco dei detenuti per i quali le loro famiglie hanno spedito denaro al campo (questo documento è datato 22 ottobre 1942); Su questa pagina sono citati Tadeusz SŁOWIACZEK, Franz SŁOWIACZEK e Karol SŁOWIACZEK.                                                                                                            Fonte Auschwitz Museum

Il 20 giugno vennero deportati, con uno dei primi trasporti, ad Auschwitz, dove vennero registrati con il numeri: 1069 Tadeusz, 1054 Karol e 1070 Franciszek. Secondo le nostre informazioni Tadeusz rimase ad Auschwitz sino al 1943, quando con un gruppo di prigionieri venne trasferito a Neuengamme nei sobborghi della città portuale di Amburgo dove dal 1938, in una ex fabbrica di mattoni, era attivo l’omonimo campo. 

Dalla sua lettera datata 31 gennaio 1943 possiamo evincere che l’uomo, fatto prigioniero come già detto insieme ai fratelli scrive alla madre e alla sorella che gli scrivono ed inviano regolarmente il denaro di cui ha bisogno. 

Anche per Tadeusz come per tutti gli altri prigionieri la ricezione della corrispondenza da casa è di particolare importanza: essa rappresenta una fonte di sostegno psicologico e morale di vitale importanza. 

Il legame con il “mondo fuori”, con i luoghi e gli affetti della vita prima dell’arresto sono fondamentali nell’economia della sopravvivenza dei prigionieri, non tanto quella fisica quanto quella legata alla loro umanità, alla possibilità di essere nonostante tutto ancora persone e non numeri.

Un’altro aspetto curioso è rappresentato dagli auguri di onomastico che il detenuto chiede vengano fatti ad una amica o parente: nella cattolicissima Polonia infatti l’onomastico e tutte le festività a carattere religioso hanno una grandissima importanza.

Słowiaczek, Tadeusz 1069 ii

Auschwitz, 31.1.1943

Care mamma e sorella!

Per l’ultima lettera e per il denaro vi ringrazio di cuore. Vi comunico che i pacchi per raccomandata sono proibiti. Da me non ci sono novità. Perché Eli mi scrive sempre così poco? Voglio sapere se da voi ci sono delle novità. Ringrazio Stanisława, ma non deve spendere così tanto. Ringrazio di cuore anche il signor Leschek per le fette biscottate. Adesso attendo una lettera da parte sua. Anche la zia Mila dovrebbe scrivermi. Cara mamma, sai quanto ci siano care le lettere che riceviamo da casa. Ogni settimana le aspettiamo con impazienza e con grande trepidazione. Anche Zbyszek aspetta i saluti da parte vostra. Vi saluto e bacio le vostre mani, carissima mamma, la zia Stanisława, lo zio Karl, il signor Leschek, tutti i parenti e i conoscenti. Attendo la risposta a ogni mia lettera e spero che non mi dimentichiate.

Il vostro Tadek 

A Nastja per il suo onomastico mando i miei più calorosi auguri. 

Ma torniamo ai fatti della storia che coinvolsero Tadeusz e che lo portarono, assieme al fratello Karl, a morire a bordo della Cap Arcona.

Durante la fase finale della guerra, le autorità del campo inviarono numerosi detenuti dal campo di Neuengamme presso alcune navi che si trovano alla fonda nella baia di Lubeck per essere affondate con il loro carico umano, fra cui  per l’appunto la Cap Arcona.

Andiamo con ordine: era il 14 maggio 1927 quando la potente compagnia di navigazione tedesca Hamburg-Sud varava, per mano della figlia dell’armatore Beatrix von Amsinck un gigantesco transatlantico di lusso  a cui venne imposto il nome di Cap Arcona dal nome di alcune scogliere a Nord dell’ Isola di Rugen nel Baltico.

Il piroscafo era destinato alle rotte transatlantiche ed in particolare ai collegamenti con il Sud America, ma con l’invasione della Polonia il 1 settembre del 1939 da parte dei nazisti e il conseguente inizio della seconda guerra mondiale, il destino della lussuosissima imbarcazione cambiò ed anch’essa venne messa a disposizione della Kriegsmarine, la marina militare tedesca.

La nave trascorse quasi tutta la guerra, dal 29 novembre del 1939 al 31 gennaio del 1945 alla fonda presso il porto di Gdynia, come caserma galleggiante e nave addestramento.

Alla fine del 1944 fu destinata al trasporto dei profughi in fuga dalla Prussia Orientale verso occidente. In seguito ad un danno ai motori (14 aprile 1945) che lasciò la nave senza possibilità di manovra al largo di Neustadt (Holsyein), la marina la rese alla compagnia di navigazione.

All’inizio delle operazioni di sgombero dei  campi di concentramento la nave venne nuovamente requisita dalle SS. Il 26 aprile del 1945 iniziò l’imbarco sulla Cap Arcona dei prigionieri del Kzl di Neungammee dei sopravvissuti della marce della morte dal campo di concentramento di Furstengrube e dagli altri campi di concentramento della Slesia

L’intenzione era quella di affondare nel Baltico la Cap Arcona e altre due navi, la Thielbek e la Athen portate appositamente nella baia di Lubecca, in modo da eliminare le tracce dei soprusi commessi nei campi di concentramento.

Durante l’imbarco dei primi prigionieri sulla Cap Arcona uomini delle SS chiusero tutte le possibili vie di fuga e bloccarono le scialuppe di salvataggio. Ciò venne interpretato come indizio dell’intenzione di affondare la nave tramite un’esplosione; furono bloccate le paratie antincendio e la nave venne provvista di una quantità moderata di carburante. 

Ma la Cap Arcona non fu affondata come programmato dai nazisti, bensì dal bombardamento della R.A.F. del 3 maggio 1945 che non fu apparentemente informata (ad oggi la responsabilità di quanto accaduto non è stata stabilita con certezza), come accadde invece per le truppe di terra ad opera della croce rossa, dell’esistenza delle navi e del tipo di “carico” da esse trasportato e che, durante i voli di ricognizione, non riconobbero nei passeggeri dei prigionieri. 

Per tale motivo le persone a bordo furono scambiate per truppe e gerarchi nazisti in fuga dal paese.

L’attacco fu condotto da aerei del tipo Typhonn del 263º squadrone da Ahlhorn, del 197º da Celle e del 198º da Plantlünne. 

La Cap Arcona fu colpita da 64 razzi incendiari che la ridussero completamente in fiamme.

I documenti relativi all’attacco aereo sono stati secretati dalla RAF fino al 2045.

cap
La Cap Arcona in fiamme dopo il bombardamento da parte della RAF

 

Così ricorda quei momenti Benjamin Jacobs:

d’un tratto udimmo uno scoppio spaventoso, la nave fu cosa violentemente. Un boato e poi un altro seguirono in rapida successione…Qualche cosa di terribile stava accadendo. Scoprimmo che la nostra porta era chiusa, e nessuno degli innumerevoli colpi, urla, implorazioni a qualcuno di aprirla ci fu di aiuto. Poi un altro botto risuonò, il pavimento si inclinò sotto i nostri piedi. Ben resto la stanza si riempì di fumo… Improvvisamente la lampadina si spense. Il buio ci terrorizzò ancor di più. (2)

(1) da: “Il Titanic dei nazisti” di Robert P. Watson, Edizioni Giunti

(2) da: “il dentista di Auschwitz” di Benjamin Jacobs, Gingko Edizioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Oleg Mandić: l’ultimo bambino di Auschwitz.

_I5I4492

Erano i primi di novembre del 2017 quando una nostra cara amica, Caterina, ci chiese se conoscessimo la storia di Oleg Mandić, sapeva dei nostri studi sui campi di concentramento nazisti e conosceva l nostro libro “Al termine del binario: Auschwitz” e quindi ci fece cosa molto gradita invitandoci ad una conferenza del dott. Mandić in cui sarebbe stato presentato il suo libro dal titolo “l’Ultimo bambino di Auschwitz”, Edizioni Biblioteca dell’Immagine.

Incontrare Oleg così come era stato per Karol Tendera è stata un’esperienza indimenticabile, l’uomo insieme alla madre e alla nonna era stato prigioniero nel più terribile dei lager nazista: Auschwitz.

8cb129de-0750-4953-a5c7-900f9c21f920_large

L’auditorium è gremito ma l’ovvio brusio dato dalla presenza di tante persone si blocca istantaneamente all’entrata di Mandić, un signore dall’aria gioviale e serena capace con i suoi occhi ridenti e curiosi di comunicare empatia e rispetto per chi gli siede di fronte.

Inizia il suo racconto e fra il pubblico l’emozione e la commozione sono tangibili.

Racconta che alla sua età ormai fatica a ricordare cosa abbia mangiato a pranzo ma è perfettamente in grado di ricordare quanto accadutogli da ragazzino quando venne deportato ad Auschwitz e che, nonostante gli anni e la fatica, è sempre felice di incontrare giovani e meno giovani per parlare loro della sua drammatica esperienza, dei suoi giorni nel lager, della sua liberazione, del suo grande immenso amore per la vita, per quella vita che dice di poter amare ed apprezzare più di chiunque altro proprio grazie alla terribile esperienza vissuta di cui per anni si è rifiutato di parlare, ma che poi nel 1955 ha deciso di trasformare attraverso la sua penna di giornalista in un messaggio di speranza affinché orrori, quali furono Auschwitz e gli altri campi di concentramento e sterminio, non siano mai più.

Oleg Mandić, classe 1933, è nato da una famiglia Istriana di origine Croata, con la madre e la nonna, fu arrestato il 15 maggio 1943, quando in casa loro, a Villa Mandić, fecero irruzione i Tedeschi che cercavano il padre ed il nonno che si erano rifugiati in montagna ed erano entrati a far parte dei gruppi di partigiani. I tre furono tradotti in carcere:

“nella cella eravamo in molti e non era possibile contare i corpi piegati ed esausti… Mi tenevo stretto alla mamma e alla nonna e non mi rendevo conto di essere diventato una parte del grappolo di corpi che perdevano sempre più le caratteristiche basilari dell’essere umano.”

Inizia così la tragica odissea di quel ragazzino che questa sera risponde con cordialità e cura nella scelta delle parole alle domande della platea. Oleg racconta la sua Auschwitz, il suo calvario, terminato con la liberazione da parte dell’Armata Rossa nel gennaio del 1945.

Oleg-Mandić-s-majkom-i-bakom-spašeni-od-ruske-vojske-HOR-6.jpg

Uno dei momenti più forti è certamente quando ricorda l’incontro con  “l’angelo della morte” il dott. Mengele, mentre si trovava  ricoverato nell’ospedale dei bambini e che ricorda come un uomo “elegante e cordiale”.

Siamo rimasti profondamente colpiti da questa descrizione tanto da porci ancora una volta di fronte ad una riflessione obbligatoria – cardine per altro del pensiero di Hannah Arendt -: si può essere così abituati a “fare” il male da esserne completamente abituati, assuefatti, da considerarlo così quotidiano? 

Può davvero il male, – e qui parliamo di un male assoluto – essere tanto “banale” ?

Può davvero un uomo essere padrone non solo della vita e della morte di centinaia di migliaia di persone ma della loro dignità, della loro umanità tanto da farne cavie da laboratorio eppure rimanere “elegante e cordiale”?

Sono tante le riflessioni che ci ha offerto l’incontro con Oleg Mandić e la sua storia e su cui abbiamo potuto continuare a riflettere leggendo il libro che lo stesso Oleg ha scritto, con il giornalista Roberto Covaz per le Edizioni Biblioteca dell’Immagine, dal titolo : ”L’ultimo bambino di Auschwitz” perché come racconta egli stesso:

“E’ venerdì due marzo (1945). Prima di salire sull’auto il bimbo si chiude alle spalle il cancello del famigerato campo di concentramento…”

 

 

ultimo bambino