Intervista a Karol Tendera.

Riportiamo l’intervista concessaci da Karol Tendera l’8 gennaio 2017 nella sua abitazione di Cracovia

Traduzione a cura di Serafina Santoliquido

K.T. – Ho qui per voi una dispensa elaborata dalla Compagnia/Associazione “Lukasiewicz”, un’associazione non governativa, in inglese. Questo sono io, qui c’è un compagno di prigionia e qui una compagna di prigionia. Tutti quelli fotografati e intervistati sono stati prigionieri ad Auschwitz e ci sono le nostre biografie. La dispensa è disponibile in inglese, tedesco e polacco, ma quella che viene distribuita più spesso è quella in inglese.

Altra cosa: ho qui un libro di storia di cui ho fatto le fotocopie, “La creazione del campo di concentramento di Auschwitz”, con il racconto dell’origine del campo e la descrizione, ci sono fotografie, qui c’è il cancello, ci sono tre recinzioni. Questo libro è solo in polacco. Due anni fa l’ho spedito al Presidente Obama, dopo aver sentito che durante un discorso ufficiale aveva parlato di “campi di concentramento polacchi, dove uccidevano innocenti, li mandavano alla camera a gas” e così gli ho scritto perché rettificasse. Vedete, ci sono fotografie dei condannati, qui ci sono i bambini che venivano imprigionati, il comandante Hess.

Noi ex prigionieri manteniamo i contatti. Io sono il presidente di un Club, un’associazione di ex prigionieri del campo di Auschwitz e Birkenau; ci sono due istituzioni non governative tedesche che ci supportano finanziariamente e una volta all’anno per Natale ci mandano 3000 euro per comprarci il pesce, il vino per il cenone della Vigilia. Sono in buoni rapporti con le istituzioni tedesche.

Ogni popolo, ogni Paese ha delle simpatie o antipatie verso gli altri e per quanto riguarda i polacchi noi  abbiamo simpatia per gli italiani. Io sono mezzo ungherese, mia madre era ungherese.

Domande:

1. Quando è arrivato al campo, sapeva già quello che La aspettava, sapeva quello che succedeva ad Auschwitz o è stata una sorpresa, uno shock?

Sono arrivato il 5 febbraio. Sapevo tutto. Tutti sapevamo quello che succedeva, o almeno tutti i cracoviani lo sapevano, perché Oświęcim si trova a meno di 60 km da Cracovia. Ho descritto tutto quello che succedeva nel campo nel mio libro “I polacchi nel Campo di Concentramento di Auschwitz”.

2. Perché è stato arrestato?

Ecco, infatti. Un’altra cosa. Queste sono foto mie con i tedeschi. A Oświęcim c’è una casa, chiamata Centro di Dialogo, dove arrivano i tedeschi, alloggiano lì. Si incontrano, pregano, cantano, visitano i campi di Auschwitz e Birkenau e poi chiedono di avere un incontro con me. E io sono qui in questa foto durante uno degli incontri. Io li incontro spesso, l’anno scorso li ho incontrati 23 volte, e 8 volte al Consolato tedesco a Cracovia, ho rapporti molto amichevoli con gli addetti del Consolato e anche adesso deve arrivare un gruppo di tedeschi e mi hanno chiesto di andare a incontrarli. 

Ma torniamo alla domanda. Spesso me lo chiedono anche loro: perché è stato arrestato? 

Allora, nel 1939, quando è scoppiata la guerra, io frequentavo la scuola professionale a Cracovia, indirizzo meccanica, in una classe di una trentina di studenti.

Me lo chiedono spesso i tedeschi, spesso sono ufficiali tedeschi, norvegesi, giapponesi. Nel marzo 1940 un giorno sono venuti a scuola due tedeschi, arrivati dal Reich, sono andati dal preside della scuola e direttamente dai banchi di scuola hanno portato via 30 studenti. Ci hanno ordinato di  vestirci, poi, scortati dai tedeschi, siamo saliti su un autobus, poi banhof, cioè alla stazione, al treno, polizia tutt’intorno ed è iniziato il viaggio. Un giorno, una notte, un giorno. Nessuno sapeva dove stessimo andando, nessuno sapeva niente, non c’erano i cellulari allora. Del resto mio padre era solo, mio padre era vedovo, qui in questa fotografia c’è mio padre, ho avuto dei genitori meravigliosi.

E quindi era marzo e ci hanno portato a Hannover e siamo stati sistemati in una baracca a 300 metri da  una fabbrica di aerei e in quella fabbrica ho lavorato circa tre anni, due anni e qualcosa. Un giorno sì e un giorno no c’erano bombardamenti e uccidevano gente, in tutte le città, non solo a Hannover, e avevo paura che ci uccidessero, eravamo in una baracca di legno, a 300 metri dalla fabbrica. E così dopo aver lavorato neanche due anni in quella fabbrica sono scappato di lì, ma non avevo documenti, ci avevano preso tutto, anche la carta di identità, non avevo niente. Avevo solo il biglietto del treno. Durante un controllo, sulla tratta per Breslavia (Wrocław), la polizia mi ha arrestato. Mi hanno portato alla Kriminalpolizei e hanno redatto il verbale. Non ho ammesso di essere scappato da Hannover perché sapevo che mi avrebbero impiccato e così ho detto che ero andato lì a cercare lavoro. Mi hanno messo a lavorare alla stazione ferroviaria e ho lavorato a Breslavia come operaio di fatica per un mese e mezzo, perché intanto i russi avevano cominciato a bombardare. Ero caduto dalla padella alla brace. E sono scappato di nuovo. Non mi dilungo sui particolari del viaggio – ho dormito in un parco, nel bosco, ho dovuto guadare un fiume a nuoto – comunque ce l’ho fatta e sono arrivato a casa. Lì mio padre mi ha raccomandato di nascondermi perché era già venuta a cercarmi la polizia tedesca, sia da Hannover che da Breslavia. Mi stavano cercando, io lavoravo, mi hanno trovato e la Gestapo mi ha arrestato, mi ha portato al Comando. Lì ho avuto un problema: avevano arrestato un prete (che probabilmente falsificava i documenti per  partigiani) e volevano che io firmassi una dichiarazione in cui sostenevo di averlo aiutato per poterlo accusare. Mi colpirono qui sull’orecchio e erano soliti picchiare con il gomito, non con le mani. Io allora ho detto: “Potete anche fucilarmi perché io non firmerò niente, perché non conosco questo prete, non l’ho mai visto in vita mia, lo vedo ora per la prima volta”.

Dopo due ore il prete è stato portato via e io sono stato messo in prigione. Sono stato in prigione per meno di due mesi e da lì siamo stati portati via, senza dirci dove stessimo andando. Siamo stati portati ad Auschwitz.

Era il 5 febbraio, 17 gradi sotto zero, la neve arrivava alla cintura. Il viaggio è stato abbastanza lungo. C’erano cumuli di neve dappertutto. E poi siamo arrivati davanti al cancello Arbeit macht frei. 

Lì nel libro c’è la fotografia del cancello con la scritta. Vabbè, non la trovo, non mi metto a cercarla, però c’è.

Siamo arrivati al cancello non in treno, ma in auto. Scortati dalla polizia, a bordo di due camionette tedesche, in cui stavamo inginocchiati su una lamiera d’acciaio, uno accanto all’altro. Più di due ore su questa lamiera gelata, a 17 gradi sotto zero. Il loro intento era quello di far morire già una metà di noi.

In prigione avevo fatto amicizia con due ragazzi – io avevo allora 19 anni – Krok Władysław  e Bachleda-Curuś, un montanaro, un giovane montanaro, della stessa famiglia Curuś di quell’attrice famosa adesso, e noi tre stavamo insieme e ci facevamo coraggio. Quando ci hanno fatti scendere davanti al cancello, le gambe erano tutte intorpidite a causa del freddo, della lamiera gelata, e le SS hanno cominciato a picchiare, a gridare ordini in tedesco e a noi giovani non è andata così male, perché siamo riusciti a ripararci, ma quelli più vecchi sono stati picchiati con questi…avevano questi grossi Schlauchen di gomma riempiti di sabbia, così grossi, e li picchiavano con questi tubi. Dopo un’ora ci hanno spinti verso la “Sauna” e lì ci hanno fatti spogliare nudi e hanno fatto uscire l’acqua bollente per dieci minuti e noi eravamo contenti di lavarci con l’acqua calda, perché in prigione non ne avevamo avuto la possibilità. Poi ci mettiamo a cercare degli asciugamani e invece niente, neanche uno straccio. Dopo un attimo sentiamo di nuovo Raus Raus e le SS ci urlano di uscire fuori, nudi. All’aperto. Lo ripeto: c’erano 17 gradi sotto zero e la neve alta fino a qui [fino alla pancia, n.d.t.]. E quindi, caldi dopo la doccia con l’acqua bollente, restiamo fuori ad aspettare che arrivi il Rollwagen, il carrello con i vestiti, cioè i pantaloni, la casacca, il berretto e le scarpe, più o meno come queste [sandali tipo frate, n.d.t.] solo che qui sopra c’era un pezzo di straccio e sotto una suola di legno. E venivamo trattati in questo modo. Dopo due mesi, delle 37 persone con cui ero arrivato ne era rimasta la metà. Metà era morta di infarto, influenza, raffreddore. Nessuno curava i malati, non c’erano cure di nessun tipo. I medici c’erano ed erano polacchi. Posso dire qualcosa a questo proposito.

[Mostra delle foto, n.d.t.]

Questo era il Blocco 8a che serviva per la cosiddetta quarantena. 

Questo era l’aspetto di ogni prigioniero, a cui erano stati tolti gli abiti civili ed era stata data la divisa a righe. 

Chi è questo? Questo era don Massimiliano Kolbe quello che è morto per salvare la vita a un nostro compagno di prigionia. Ecco qui c’è scritto: Massimiliano Kolbe. 

Mütze era il berretto e bisognava averlo e il Winkel rosso era quello politico. I Winkel erano di diversi colori: nero, azzurro, viola. Questo era quello politico, quello rosso.

3. Ha conosciuto padre Massimiliano Kolbe?

No, io no, perché Kolbe era stato al campo prima di me. Ma un mio compagno, tra l’altro un compagno che era arrivato prima di me,  con il numero 121, era lì con lui, era presente, ha visto tutto, perché loro [le SS, n.d.t.] facevano tutto pubblicamente, sotto gli occhi di tutti.

E lui ha visto tutto quello che è successo con Kolbe. 

Quando qualcuno fuggiva da un Kommando, uno o due prigionieri, le SS ne impiccavano 15. Davanti alla cucina c’era la forca e io abitavo nel blocco 16, proprio di fronte alla cucina. E stando lì vedevo tutto.

Ma Józek Paczyński, era presente con Kolbe e ha visto tutto e poi lo ha raccontato. Quando ci siamo visti, mi ha raccontato tutto nei dettagli. Nella rivista che vi ho dato non c’è perché è già morto [il 26 aprile del 2015, n.d.t.], lì ci sono solo quelli ancora vivi. 

Quindi questo è un prete che ha sacrificato la propria vita. È andato dallo Schreiber, come si dice Schreiber…dallo scrivano, ogni blocco aveva lo Schreiber,  il Lagerälteste, lo Studendienst. Allora Kolbe andò dalla scrivano e gli disse: “Questo Gajowniczek che deve essere impiccato [Franciszek Gajowniczek, uno dei dieci prigionieri che erano stati selezionati per essere uccisi a seguito di una rappresaglia, n.d.t.] ha moglie e due figli, mentre io sono un prete e anche malato, e mi offro di prendere il suo posto”. E quindi Kolbe venne ucciso e Gajowniczek è sopravvissuto ed è uscito dal campo. È morto, due o tre anni fa probabilmente. 

Vi do anche questa foto per ricordo.

Anche questo è stato dipinto da un prigioniero. 

Come era la quarantena? Erano sei giorni nel Blocco 8a. Ogni blocco aveva un Blockführer, un uomo delle SS, e poi c’erano i prigionieri funzionari che non facevano tutto da soli, ma ordinavano ad altri di fare. Durante la quarantena nel Blocco 8a ogni giorno il Blockführer ci portava giù a fare ginnastica, quella che veniva chiamata ginnastica punitiva e che consisteva nel saltare, saltare sulle ginocchia oppure rollen, rotolarsi nel fango, sui sassi, nell’acqua, nella neve. E lo facevano vestiti, poi non c’era possibilità di lavarsi, di asciugare i vestiti. Bisognava poi andare a letto così. Era una tragedia. E lo facevamo ogni giorno per sei giorni. E c’erano anche quelli più vecchi, più deboli, malati. C’era anche un rullo di cemento su cui bisognava camminare e che con la neve, il ghiaccio o la pioggia diventava molto scivoloso. E quando qualcuno cadeva a terra, perché era vecchio o malato o affamato, arrivava immediatamente la SS che si appoggiava sulla gola con lo stivale fino ad ucciderlo e ovviamente dopo un attimo arrivava il Rollwagen e l’infelice veniva portato al crematorio. Uno dopo l’altro.                 E questo era il benvenuto che davano agli stranieri. 

E lì, dopo qualche giorno di quarantena, una sera verso le dieci è arrivata un SS, probabilmente un Blockführer accompagnato da due prigionieri anziani, anziani nel senso che erano lì da tempo, uno aveva in mano l’inchiostro, mentre la SS aveva una penna più lunga, la riempiono di inchiostro e a ognuno di noi hanno scritto un numero sul braccio. Questo era il mio cognome [legge il numero in tedesco, n.d.t.]. Questo era diventato il mio cognome. E ci hanno detto cosa ci era permesso fare e cosa era vietato.

Volete fare una foto?

Tra le altre cose il Blockführer dice che quando si passava accanto a una SS o a un Blockführer o a qualche altra autorità del campo bisognava togliersi il berretto. Si diceva Mützen up, Mützen è berretto, up come togliere, un’espressione un po’ strana.

Ma c’erano anche i Muselmänner [lett. musulmani, n.d.t.], sapete chi erano, erano quelli che ancora camminavano, ma erano prossimi alla morte per privazioni. Io ho visto per due volte dalla finestra – abitavo al piano terra – quello che succedeva. Passa una SS accanto a qualcuno sfinito, estenuato, sporco, che non guardava in direzione della SS, ma stava cercando qualcosa da mangiare, un pezzo di patata. C’erano dei posti dove veniva buttata la spazzatura. Questo ragazzo non si era tolto il berretto, non stava guardando, non l’aveva visto. “Vieni qui” – gli urla l’SS. Non saprei dire chi fosse, guardavo da dietro il vetro. Gli fa cenno con la mano di avvicinarsi. Quello si avvicina. Penso che l’SS gli abbia chiesto perché non si fosse tolto il berretto. Non so, credo. L’ha colpito così violentemente in faccia che è caduto sul pavimento di mattoni, battendo la testa su un mattone sporgente e l’ha ucciso, quel povero ragazzo. Dopo un attimo è arrivato il Rollwagen, lì c’era il crematorio, che è rimasto fino ad oggi, quindi arrivava il Rollwagen con due prigionieri che prendevano il  cadavere e lo portavano via. E così per un po’ di tempo ci torturavano. E dopo la quarantena venivano assegnati ai vari Kommando, i gruppi di lavoro.

4. E Lei dormiva nel Blocco 16 e a quale Kommando è stato assegnato? Che tipo di lavoro faceva?

Lavori di miglioria. Erano lavori di tipo diverso, cambiavano spesso, ma lavoravo sempre fuori dal campo. All’interno del campo lavoravano solo i prigionieri funzionari, i cuochi, i sarti, fabbri, perché c’erano delle officine che servivano per le riparazioni.

Dopo un po’ di tempo, due mesi circa, durante l’appello – c’era l’appello due volte al giorno, la mattina e la sera – il Blockführer ha letto dei numeri e ci ha ordinato di trovarci la mattina dopo davanti alla cucina e da lì ci ha portato al Blocco 28. Il Blocco 28 si chiamava Krankenbau, perché nel sotterraneo c’era il laboratorio degli esperimenti e sopra delle sale, degli ambienti dove restavano in osservazione le persone su cui avevano fatto gli esperimenti, infettati con sostanze di diverso tipo.

Qui in questo libro, di cui vi ho fotocopiato l’estratto, ci sono le fotografie delle baracche in mattone a Birkenau dove ho abitato. Questo è il Blocco 11, dove c’era il muro della morte, dove eseguivano le esecuzioni. Facevano delle iniezioni grosse così sulla natica.

E, pensate, siamo andati lì, con questa vista, eravamo in quindici mi pare, il dott. Carl Clauberg, specialista per gli esperimenti e la sterilizzazione delle donne, le donne venivano esaminate per la capacità di procreazione, siamo andati lì e ci hanno iniettato un liquido.

5. Sa cos’era questo liquido?

Sono venuto a saperlo dopo, perché nel campo non si potevano fare domande di nessun tipo, anche perché i tedeschi del Centro di Dialogo me lo chiedevano.

E qui ho l’indicazione della sostanza: Preperat BE 1034 prodotto dalla Bayern, sembrava un caffè nero.

Sono venuto a saperlo da un medico di Cracovia, il dott. Bogusz che è morto da poco, anche lui ex prigioniero, è stato lui a dirmelo e ho preso appositamente queste indicazioni da lui, così adesso so rispondere quando mi chiedono cosa fosse il liquido che mi avevano iniettato.

Nel sotterraneo del Blocco 28 c’era il laboratorio degli esperimenti, diretto da Josef Mengele.

Potete fare la una fotografia a questo documento con Mengele.

La puntura è stata fatta sulla natica.

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6. Come si è sentito dopo l’iniezione?

Dopo l’iniezione siamo stati portati nella sala sopra e lo stesso giorno, in serata, dopo tre-quattro ore a tutti era venuta la febbre altissima, a 40. Questo me l’ha detto un infermiere, Staszek Głowa, di Cracovia, con cui poi ho fatto amicizia, mi ha detto che tutti avevamo la febbre molto alta. Gli infermieri si prendevano cura di noi. Ci davano delle pastiglie ogni giorno, annotavano quello che ci succedeva e l’esperimento consisteva nel controllare quanto tempo riuscivamo a reggere una temperatura corporea così alta.

Dopo tre giorni tre di noi sono morti, non hanno retto la febbre alta. Dopo sette giorni la temperatura si è abbassata, l’esperimento si era concluso e ci hanno ordinato di andare a lavorare. Tornare al lavoro.

Oltre al capo del laboratorio, che non era in pianta stabile al campo, c’erano due aiutanti, un professore di anatomia dell’università di Münze, il professor Johan Paul Kreber, che faceva le iniezioni, sterilizzava le donne e uccideva con un’iniezione nel cuore chi non era più abile al lavoro e il secondo era il professor Edward Würtz, medico della guarnigione del campo di concentramento di Auschwitz. E poi ce n’erano altri che venivano ad aiutare.

E questi tre criminali uccidevano, mandavano alla camera a gas, facevano iniezioni. Quando qualcuno era debole, un’iniezione e poi al crematorio.

E c’è ancora questa fotografia, che era stata pubblicata sulla rivista tedesca “Krakauer Zeitung” e che avevo trovato quando, fuggito da Breslavia, ero rimasto per qualche mese a Cracovia. Ritrae la banda dei quattro criminali: Keitel, Göring, Hitler, Wellman. Coloro che idearono e crearono i campi di concentramento.

Loro sono i colpevoli di tutti i crimini perpetrati. 

Fate una foto.

Voglio aprire adesso una piccola parentesi per dire che da molti anni i tedeschi hanno fondato, in Germania, un’organizzazione segreta, chiamata organizzazione 114, con a capo Reichard Goering e un’altra SS, Alfred Betzingier, che aveva il compito di diffondere informazioni false sui portali e nelle agenzie di stampa affinché addossassero parte della colpa, almeno metà della colpa dell’Olocausto, ai polacchi. E in parte gli è riuscito, perché il nostro vice premier dell’attuale governo ha raccontato alla stampa che quando andava all’estero per partecipare a incontri internazionali si sentiva dire che noi polacchi eravamo collaborazionisti, che avevamo contribuito a finanziare il campo di concentramento di Auschwitz, che avevamo collaborato con i tedeschi e quindi eravamo altrettanto colpevoli per l’Olocausto. E dicevano queste cose alti dignitari norvegesi, di Israele, anche francesi.

Il nostro ministero ha scritto, ha protestato, ma non è servito a niente.

Nel 2015 ci sono stati 135 interventi da parte del nostro Ministero degli Esteri a questo proposito. Ma niente, la risposta che ricevevamo era che si era trattato di un errore, che si erano sbagliati. Nel 2016 ce ne sono state di meno di queste interrogazioni, mi pare 9.

Allora visto che né il premier di allora Tusk, né il ministro di allora Sikorski erano riusciti a fare niente, noi ex prigionieri ci siamo uniti e ci siamo rivolti a uno studio legale di Olsztyn, loro hanno sostenuto le spese e mi rappresentano, e io mi sono costituito come parte in causa. I nostri giudici dicevano che i tedeschi si erano scusati, che era stato un errore. Certo può succedere un errore, una volta, cinque, nove, ma non 135, Santo Cielo! Quindi con l’aiuto dei miei avvocati ho fatto causa e l’ho vinta.

La prima causa l’ho persa perché la giudice di Cracovia, Siekicka, ha detto che i tedeschi avevano scritto, avevano inviato delle scude e ha ritenuto che le scuse ricevute fossero già sufficienti.

Lei ha ritenuto che fossero sufficienti!!!

Loro hanno sputato su di noi, sul nostro Paese, sul nostro governo, sul nostro popolo, ci hanno calunniati, hanno detto che avevamo tollerato un genocidio in Polonia e quest’idiota…beh, l’ho attaccata, ho scritto al Ministro che avrebbe dovuto cacciarla da quel tribunale.

Lei ha rinviato la causa, io mi sono innervosito tantissimo, allora ci siamo rivolti in appello e alla fine ha costretto questi impostori della storia a pubblicare…ho qui le stampe da internet…

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[Mostra articoli di giornale in cui si legge la sentenza della Corte]. 

“Ex prigionieri di Auschwitz, sentenza della Corte per la causa Tendera alla televisione pubblica tedesca ZDF”. Così si chiamava la seconda televisione tedesca. Uno scandalo! Ha scritto magnificamente il signor Bartosz.

E poi “Scuse pubbliche per Karol Tendera”.

E qui siamo in tribunale, con il mio avvocato che ha ritenuto che il querelante fosse stato danneggiato e che gli fossero dovute delle scuse personali. E la giudice Siekicka che diceva che [i tedeschi] le avevano mandate, che erano sufficienti le scuse ricevute.

– Ma io non ho ricevuto nulla, né in forma scritta, né oralmente, signor giudice.

– Ma, come, Lei qui lo ha dichiarato…

Il vicepremier Gowin ha scritto in un articolo che se questa causa si fosse svolta in Germania, la corte tedesca sicuramente avrebbe preso le parti dei tedeschi, non dei polacchi. Succede anche nelle cause di famiglia, per l’affidamento dei bambini, il cognome…

E invece qui la giudice stava dalla parte del querelato. Qui siamo dopo la causa.

E comunque non è tutto, abbiamo delle pretese nei confronti della corte. Qui siamo dopo il ricorso in appello. Ha rimandato la causa e ha ammesso che le scuse devono essere personali. Se qualcuno si era sentito offeso, allora ci scusiamo. Ma che scuse sono queste?

Abbiamo vinto, ma abbiamo ancora delle pretese nei confronti della corte perché dovrebbero scrivere che si scusano con il popolo polacco, con il governo polacco, perché avevano scritto che la Polonia aveva collaborato.

– Tornando a parlare del campo, della vita nel campo, com’erano i rapporti tra i prigionieri?

KT- Buoni, molto buoni. Un grande aiuto, una grande solidarietà, anche dopo essere tornati a casa. Ma voglio raccontarvi qualcosa su Birkenau, che è molto importante, ancora più importante di Auschwitz. Quindi, dopo tutto quello che c’era stato, un giorno, una mattina, le SS, i tedeschi, hanno radunato dai vari blocchi una ottantina di ragazzi a cui era stato iniettato il preparato e ci portano a piedi a Birkenau, a 1,5 km da Auschwitz. Allora andiamo, non sappiamo dove, era l’inizio.

Dopo un po’ uno dei compagni, che parlava benissimo tedesco, era di Poznan, chiede a una SS, ce n’era una quindicina attorno a noi, dove stessimo andando. E quello risponde che ci stanno portando al “sanatorium” per la convalescenza, in una casa di cura, dove ci avrebbero curato meglio per poter riprendere le forze e tornare a lavorare.

Quando siamo arrivati a Birkenau, era pomeriggio, o addirittura sera, abbiamo visto che erano arrivate anche altre persone con i trasporti. Era il 1940.

Un elemento importante se si pensa a queste trappole di morte. L’SS lasciò quelle persone tra i blocchi, guardate dai cani, e disse: “Siete arrivati al campo di concentramento tedesco. Non è una casa di cura, è un campo di lavoro duro. Non c’è altra uscita se non attraverso il camino del crematorio”.

E ha continuato: “In questo campo gli ebrei hanno il diritto di vivere al massimo due settimane, i preti e gli zingari un mese, tutti gli altri tre mesi. E se a qualcuno la cosa non piace può andare anche subito a toccare il filo spinato – quello elettrificato che circondava il campo – e domani mattina sarà libero e uscirà da Birkenau attraverso il camino. E lo ha fatto per un anno e mezzo. Si chiamava Karl Frycz, il lagerfuhrer. Non era il comandante, era il direttore del campo. Era l’inizio, era il 1940. E così Karl Frycz accoglieva i nuovi arrivati, chiamati zugang, con questo benvenuto in tedesco.

– In che mese precisamente è arrivato a Birkenau?

Ad Auschwitz a febbraio e a Birkenau circa tre mesi dopo, dopo quell’iniezione.

E perché è importante questo, perché dopo quel “benvenuto”, ogni sera 10, 12, 15 persone andavano a suicidarsi al filo spinato. Elettrificato ad alta tensione, 380 volt, mortale, 220 è mortale. E 380 è la fine. La persona si bruciava. Era un lavoro intenzionale. Così come lo era quello di farci uscire nudi, dopo averci fatti riscaldare, quando fuori c’erano 16 gradi sotto zero! Un lavoro intenzionale. E così si moriva.

C’era un ragazzo, che abitava in una casetta nei pressi di Cracovia, un musicista, non guadagnava molto, aveva 6 persone a carico, fratelli, madre, padre, nonno e nonna. 

E queste erano le trappole preparate per i prigionieri,

Quindi torniamo a Birkenau. Al “sanatorium”. Qui ho un quaderno preso dal museo.

Questo è l’aspetto odierno di Birkenau, in particolare qui dappertutto c’è l’erba, non ci sono cadaveri, ma quando sono arrivato io, c’era fango dappertutto che arrivava fino alla caviglia, e davanti a ogni porta era pieno di cadaveri, persone agonizzanti che chiedevano un po’ d’acqua, un pezzo di pane, qualcosa da mangiare, chiamavano dei nomi. Ormai stavano morendo. Agonia e fango. Ci trattavano come banditi!

E questa era la situazione di Birkenau quando sono arrivato. 

– Quindi la situazione era molto peggiore rispetto ad Auschwitz.

KT – Sì, decisamente. Molto peggiore. Ad Auschwitz c’era l’acqua fredda, c’erano i gabinetti alla turca, uno accanto all’altro, senza nessun separé, ma ovviamente dappertutto pidocchi e pulci.

Quindi siamo arrivati da Auschwitz, attraverso il cancello, nel fango, ci hanno dato il benvenuto cadaveri, persone agonizzanti, che si lamentavano e piangevano. Qui prima della guerra i soldati polacchi curavano i cavalli. I cavalli curavano.

Questo è l’ingresso della baracca e questo è l’interno di quella che doveva essere la casa di cura, adesso vi dico quello che c’era dentro. Questa doveva essere la casa di cura.

Entriamo. Ai lati ci sono dei pancacci. Per terra una gettata di cemento. E qui si dormiva. Ciascuno di questi pancacci era per 10 persone. Tre pancacci – uno due tre – ognuno per 10 persone, quindi trenta persone su tre piani.

In una baracca di questo tipo c’erano 500 persone, strette come sardine. Ma non è ancora tutto, non è la cosa peggiore.

La cosa più importante è che nella baracca non c’era niente. Direttamente dal tetto (non c’era nessun tipo di soffitto) pendevano 2-3 lampadine. E non c’era nient’altro. Non c’era acqua, né riscaldamento, né gabinetti.

Quando sono entrato nella baracca ho detto a Wladek [uno dei compagni di prigionia, n.d.t.] che se avessi avuto una pistola mi sarei sparato immediatamente, perché lì li aspettava solo la morte. E in quali tragiche condizioni!!!

C’erano solo pidocchi, pulci, topi, sorci, sporcizia dappertutto…

Ecco, diglielo, diglielo, che sappiano come siamo stati trattati dai tedeschi.

Non c’era niente, solo due lampadine. Lo ripeto: senz’acqua, senza riscaldamento, senza gabinetti…

Mi viene chiesto spesso: Dove facevano i propri bisogni queste 500 persone, Santo Cielo, perché ognuno faceva qualcosa? Ecco qui c’è un pilone in muratura. Ogni tre-quattro piloni c’era una botte di legno, vecchia, da 100 ml preceduta da due-tre gradini. C’erano anche dei ragazzini, quindici-sedicenni. Si saliva per i graditi e si facevano i bisogni in queste botti di legno che si trovavano all’altezza del naso di quelli che dormivano sul primo pancaccio.

E questo non si legge, non lo scrivono da nessuna parte.

Quando ci penso…io lo dico sempre, quando mi trovo in un contesto più ampio, ai tedeschi, ai giapponesi, agli ufficiai tedeschi che sono venuti una volta, due mesi fa, affinché aprano gli occhi.

Uno mi ha detto: Ho letto nel giornale Die Zeit a Monaco che con il Terzo Reich avete finanziato questi campi, li sorvegliavate insieme e nei giornali è scritto che come polacchi avete almeno il 50% della responsabilità dell’Olocausto, di questo genocidio.

Ma torniamo a noi…in queste condizioni vivevamo. Oltre al danno la beffa.

– I prigionieri scrivevano lettere alle famiglie?

KT – Sì, certo.

– Anche Lei ne scriveva?

KT – Sì, anch’io. Qui ho le copie. C’erano dei moduli speciali per scrivere le lettere. Poi passavano i controllo. Ho scritto 4-5 lettere. Gli originali li ho dati al museo, da qualche parte ho le copie.

Le ha scritte un mio amico e io ho firmato e scritto l’indirizzo. L’indirizzo di mio fratello. Perché mio padre non aveva restituito il televisore. Aveva comprato un televisore tedesco, aveva la corrente, del resto non la guardava, e non l’aveva data ai tedeschi. Qualcuno aveva fatto la spia ed era stato condannato a un anno e mezzo. Ma mio padre non si presentò in prigione, non scontò la pena in prigione e si nascose da degli amici. Avevo la sentenza e l’ho donata al Museo di Auschwitz.

– Ricevevate delle cose dall’esterno, prodotti, cibo?

KT- Sì, c’è stato un periodo, quando c’è stato il cambio di comandante, era andato via Höss (lo hanno trasferito dopo un paio d’anni) ed era arrivato Liebehenschel che allentato un po’ la morsa, ha permesso qualcosa in più. Ha addirittura liberato un paio di prigionieri. Non si sa. Uno era Bogusz, è morto da poco tra l’altro, forse un anno e mezzo fa. E l’altro era Zalewski Tadek. Anche lui è stato liberato. Ma di lui sapevo, sua figlia aveva sposato una SS a Berlino e grazie a lui è stato liberato.

E questo Liebehenschel ha permesso che venissero spediti dei pacchi, anche se ovviamente passavano il controllo della censura. Anch’io ho ricevuto un paio di pacchi da mio fratello, con dentro salsiccia, sanguinaccio, pane bianco, cipolle e aglio, che faceva bene per lo scorbuto.

E questo era il 1944.

– Esisteva un codice che i prigionieri usavano quando scrivevano le lettere per poter comunicare qualcosa a chi stava all’esterno?

KT – Ovviamente non si poteva scrivere la verità, perché altrimenti la lettera sarebbe stata cestinata. Una volta, due ho ricevuto da mio fratello la conferma che aveva ricevuto la lettera. Ma non usavano codici particolari.

Non c’era nessun codice, scrivevi quello che volevi. Se la censura accettava il testo, la lettera veniva spedita.

– Da quando ha potuto cominciare a parlare liberamente di quello che era successo ad Auschwitz?

KT – In Polonia?

– Sì.

KT – Da subito. Non c’è mai stata nessuna limitazione, anzi le autorità volevano sapere cosa era realmente successo. A questo proposito il Ministro degli Affari Esteri mi ha dato un premio per aver fatto causa in tribunale contro i tedeschi, in difesa delle autorità polacche, perché il popolo polacco non ha colpa.

Adesso vi mostro questo premio. Hanno scritto una decina di articoli a Cracovia e fuori Cracovia. Un giorno ho ricevuto una telefonata con cui mi si informava che il ministro aveva deciso di darmi un premio per tutto il tempo che dedico e ho dedicato alla causa – in effetti il processo è durato più di due anni. Quindi ha deciso di darmi una medaglia per il fatto che rafforzo la posizione della Polonia nell’arena internazionale. Sono stato invitato insieme a mia moglie e sono stato premiato con questa medaglia alla presenza di giornalisti, direttori e il Ministro mi ha conferito questa medaglia:

All’amico della Polonia come riconoscimento per l’opera di promozione e di rafforzamento della posizione della Repubblica Polacca nel mondo.

Il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Polacca 

Witold Waszczykowski

– In che anno? 

KT – L’altr’anno. Nel 2016.

KT – E cosa significa benemerito? È in italiano?

SS – Significa benemerito.

KT – E anche questo me l’ha consegnato il ministro Waszczykowski. Il 30 maggio 2016.

– Che lavoro faceva a Birkenau?

KT – A Birkenau era l’inferno. L’inferno sulla terra. Abitavano nelle baracche in muratura. Il pranzo arrivava in dei pentoloni lì dove lavoravamo e dove c’era il Kapo e in sua presenza ci veniva dato un mestolo di quella brodaglia.

Quello che io facevo era scavare dei fossati che avrebbero ospitato probabilmente vasche per i pesci. Non so se poi hanno finito, perché io sono stato trasferito. C’era un fossato, poi delle passerelle di legno.

Era ottobre, nevicava, faceva freddo, c’era fango, si scivolava. Noi avevamo dei contenitori, come dei vassoi con dei manici, che in basso ci venivano riempiti e poi in due dovevamo trasportare camminando su queste passerelle e poi svuotarli.

E ovviamente scivolavamo. E quando scivolavano il kapo ci picchiava con la frusta di gomma. Ci picchiavano per il fatto che scivolavamo. Io sono stato anche colpito con un calcio all’osso sacro, mi ha fatto male per altri dodici anni dopo che ero uscito dal campo. In quel Kommando ho lavorato per un certo tempo, ma non era possibile continuare a lungo, visto che era un lavoro che oltrepassava le forze umane, in quei mesi pioveva, loro avevano degli impermeabili per ripararsi dalla pioggia, noi no.

– Quante ore al giorno lavoravate?

KT – Andavamo a lavorare verso le 6-6.15 e finivamo verso le 18. Erano le SS che controllavano l’orario. A volte finivamo prima, alle 16.

Anche di questo non scrivono, non dicono niente.

Io ce l’ho con Tusk. Gli è stato mandato il libro e non si è degnato nemmeno di rispondere.

Mi ha risposto Joachim Meister, lui mi ha risposto, gli ho dato il libro, quando sono stato da lui con una delegazione insieme ad altre nove persone.

Gli ho detto che è in polacco, ma lui ha risposto che ha chi glielo può tradurre. E ha ringraziato.

L’arcivescovo ha risposto, l’arcivescovo Dziwisz, suo collega, mi ha ringraziato; mi ha mandato una bella lettera Keller, il console generale della Germania a Cracovia.

Ma quel cafone [Tusk, n.d.t.] se n’è completamente fregato di me, non mi ha degnato di una risposta. Komorowski [ex presidente della Polonia, n.d.t.] ha almeno incaricato un ministro e ho riceuto i ringraziamenti. E invece Tusk niente. E per questo mi fa schifo. 

– È possibile comprare il libretto di memorie?

KT – No, è esaurito nelle librerie polacche, ma tra poco uscirà la traduzione in tedesco. Perché me lo hanno commissionato in Germania.

Devo dire che ho una grande fortuna nella vita, anche solo per il fatto stesso di vivere. Ma anche perché una delle persone che hanno letto il libro, una signora che abita in Svezia, due anni fa mi ha scritto per ringraziarmi e per dirmi che il libretto dovrebbe essere tradotto e che se avessi avuto bisogno di un aiuto economico, lei era a disposizione. Una sua amica avrebbe tradotto gratuitamente in inglese e per la traduzione in tedesco mi avrebbe aiutato lei.

Io sono un pensionato. Ho lavorato in un’azienda e lì ho maturato la pensione. Una pensione polacca.

E così le ho scritto una timida lettera dicendole quanto sarebbe costata la traduzione (2500 euro). Mi ha risposto (ormai ho già ricevuto dodici lettere da lei). Nella terza lettera le ho proposto di darci del tu (e adesso in ogni lettera ci scriviamo “carissimo Karol”, “carissima Ania”). E così mi ha mandato dei soldi per la traduzione, poi c’era bisogno di soldi per la correzione e per la stampa.

Ma lei mi ha sempre finanziato.

Una persona che non ho mai visto di persona. E neanche in fotografia, anche se le ho chiesto più volte di mandarmene una, ma non l’ha mai fatto. Mi ha telefonato un paio di volte. Scrive molto bene in polacco.

Insomma, una forma di amore virtuale.

– Quando era a Birkenau ha visto quando arrivavano i trasporti?

KT – Sì. Una cosa tragica. Visto che il Kommando dove lavoravo ai fossati era terribile e visto che ero malato, del resto tutti ci ammalavamo, diarrea, influenza, tifo… Io avevo allora la diarrea e Wladek Krok, che è stato con me fino alla fine, mi ha detto di andare in un blocco, circondato di fango, dove forse avrei trovato un medico, dove forse mi avrebbero dato delle medicine, magari in qualche modo ti aiuta.

Vado, mi infango completamente, vado dall’infermiere, vado in questo Krankenbau, in questo ospedale, diciamo così, si apre la porta, una porta in legno, abbastanza primitiva, mi avvio verso la seconda porta e lì ci sono 15 uomini che si rotolano nel fango, alcuni solo con i pantaloni, senza casacca e gridano, chiedono aiuto, Santo Cielo, e questo era all’inizio, erano i primi mesi, non ero abituato, preparato.

Entro nella baracca, la stessa cosa, pancacci da una parte e dall’altra, un corridoio.

Nel corridoio dappertutto escrementi.

E mi dico – Santo Cielo, dove sono finito. Sui pancacci poveri disperati che piangono, gridano, chiedono aiuto, si lamentano. Mi guardo intorno e vedo degli stivali di gomma. Allora li prendo e me li metto, almeno mi sarebbero serviti per camminare in mezzo agli escrementi. 

Allora chiedo: – C’è nessuno?

E esce un infermiere con la stella di David, un ebreo quindi, a cui chiedo se c’è qualche medico che possa darmi qualche medicina.

E questo mi dice: – Sei impazzito? Questa è l’anticamera della morte. Tra due giorni sarai al crematorio. Vi immaginate una risposta del genere, da un infermiere? Tremavo di paura. Uno choc. Uno choc.

E qui la mia fortuna. Uno dei miei momenti fortunati. Dopo un attimo mi chiede: Di dove sei? Da dove sei arrivato?

Di Cracovia. Abito a Cracovia

Ah di Cracovia. Anch’io sono di Cracovia. Ho ancora degli amici ebrei lì. 

Anch’io ho degli amici ebrei. Due li ho incontrati ad Auschwitz. E poi li ho aiutati, quando ero in cucina li ho aiutati.

Allora ti aiuto, sei di Cracovia. Ti do queste pastiglia per la febbre. Avevo la lingua bianca. Ti do qualcosa per lo stomaco. Ma soprattutto chiedi ai compagni di affumicarti il pane sul carbone e mattina e sera mangia il pane affumicato. Per due tre giorni devi mangiare il pane affumicato sul carbone.

Ma soprattutto, se vuoi vivere, domani mattina esci di qui, torna al Kommando a lavorare e chiedi ai compagni di affumicarti il pane e prendi le pastiglie. Restare qui significa morire. Andare direttamente al crematorio.

Io l’ho ringraziato e mi sono affidato ai suoi consigli.

La mattina dopo sono uscito. Ho dormito lì una notte.

Ah ho dimenticato di dire cosa c’era su quei pancacci…Sui pancacci c’erano dei trucioli pieni di pulci, pidocchi, blatte, scarafaggi, piscio… e lì dormivamo.

Dio mio, in che condizioni ci tenevano. E inoltre sorci e topi. E non c’erano gabinetti. Solo le botti per i bisogni.

Quando sono uscito dall’ospedale, chiamiamolo così, grazie all’aiuto di questo infermiere, Marian, gli sono grato e lo ricordo sempre, sono tornato al lavoro, eh eh, guarito, e un Kapo mi ha preso e mi ha portato al binario morto. Al binario morto arrivavano diversi vagoni sia con persone sia con elementi per costruire le baracche e noi dovevamo scaricarli a terra dai vagoni e trasportarli sulle spalle. e di nuovo alcuni giorni di questo lavoro durissimo. Era ottobre: freddo, diluviava…

Un giorno, mentre stavo facendo il mio solito lavoro, verso mezzogiorno, è arrivato un trasporto di persone.

Si è aperta la porta laterale erano delle porte abbastanza primitive, chiuse con un lucchetto.

E arrivano dei vagoni.

Sul binario morto già c’è una decina di SS, uomini e donne, aspettano, e il trasporto è arrivato, hanno aperto le porte laterali, scorrevoli.

Dentro c’erano ebrei, seduti per terra, avevano viaggiato per tre giorni. Ognuno aveva due valigie, su cui era scritta la provenienza. Venivano dal Belgio Sono arrivati dal Belgio, avevano portato tutte quelle cose dal Belgio.

Quindi sono arrivati questi due vagoni, le SS hanno cacciato fuori le persone, offendendole, apostrofandole con brutte parole (bestie e cose del genere) e trattandole come si trattano gli scarafaggi.

Hanno portato via subito gli uomini, immediatamente, mettendoli in fila per 8 e li hanno portati via; sono rimaste le donne e i ragazzi, tra i 12 e i 16 anni. C’era forse una quindicina di ragazzi. Sono rimaste le nonne, le mamme.

I bambini si attaccavano alle mamme, quelli più piccoli, di otto anni, prendevano le mani delle mamme, i più grandi si attaccavano alle gambe.

Una SS ha portato due paletti di metallo tra cui hanno legato un filo. E facevano passare i bambini sotto questo filo.

I piccoli a sinistra, i grandi a destra. Sinistra destra.

Piccoli – a sinistra – significava crematorio, grandi – a destra – significava lavoro.

E qui è cominciato l’inferno sulla terra. Uno di questi medici di Auschwitz (che è stato poi impiccato) ha dichiarato che sul binario morto c’erano le selezioni, che erano tragiche. I bambini scappavano, piangevano. Scene inimmaginabili di come le mamme difendevano i bambini. I bambini, le mamme, le nonne piangevano. Uomini non ce n’erano, erano stato portati via. Non gli è riuscito tutto ai tedeschi. 

I bambini più piccoli – i più grandi venivano portati al lavoro – venivano strappati a forza dalle mamme li strappavano dalle braccia delle mamme, dalle gambe. Le SS picchiavano selvaggiamente i bambini con delle fruste di pelle, le mamme, le nonne che cercavano di trattenere i bambini. Una scena che non dimenticherò mai. Li mettevano a forza nei carri che erano già pronti sul binario morto, dicevano che li portavano a lavarsi, dicevano che non c’erano motivo di aver paura di andare a lavarsi.

Poi venivano mandati alle docce, dove si sapeva che cosa succedeva, dove una SS poi buttava il Zyklon B attraverso una finestra.

E il Sonderkommando era un Kommando speciale che andava a prendere i cadaveri, perché i tedeschi questo non lo facevano.

Gli storici scrivono che i tedeschi hanno chiamato il piano di Hitler un genocidio, si scrive che i tedeschi commisero un genocidio. E io questo genocidio, in parte, l’ho visto. Su questo binario morto sentivo come gridavano, chiedendosi dove fosse Dio onnipotente, “Dov’è Dio – dicevano – Dio non esiste, è un bluff, è tutto falso. Loro sono protetti da Dio e non noi. Noi siamo le vittime. Portano i nostri bambini alla camera a gas”.

Ancora adesso mi è difficile parlare di questo, mi commuovo ogni volta. Ogni volta rivedo queste scene davanti agli occhi.

E dopo anche le nonne, le vecchiette venivano mandate alle docce, alle camere a gas. Le donne anziane non erano adatte al lavoro.

Torniamo al mio lavoro.

Il mio lavoro sul binario morto era durissimo, in mezzo al fango.

E dopo due-tre giorni ho avuto di nuovo un colpo di fortuna. Durante l’appello il blockfuhrer ha detto che tutta una parte del gruppo doveva andare in altro blocco per la selezione.

C’erano circa 150 persone, forse 200. C’erano SS, uomini e donne. Ci hanno fatti spogliare nudi. Ci hanno fatto entrare in una baracca di calce e legno.

Ci guardano la lingua – e io la lingua ce l’avevo bianca, a causa della malattia, della diarrea che avevo avuto. Wladek, che era con me, mi disse che mi avrebbero scartato, perché ero mezzo morto, da tre giorni non mangiavo niente, se non pane affumicato. Allora Wladek mi disse che non appena mi avessero scartato avrei dovuto vestirmi in fretta e andare immediatamente verso la finestra in fondo e da lì sarei dovuto scappare, altrimenti due giorni dopo sarei finito nel crematorio. E così ho fatto.

Wladek mi ha salvato la vita. 

Hanno finito la selezione, ci hanno diviso in gruppi da otto e ci siamo messi in cammino per tornare ad Auschwitz, che era quello che tutti sognavamo, perché lì c’era l’acqua, le condizioni erano diverse, non c’erano topi e ratti, le baracche erano in muratura. 

Ad Auschwitz si stava meglio, e questa è stata la mia fortuna.

– Ma a Birkenau non si sono accorti che Lei mancava? Non controllavano?

KT – Sì, potevano esserci dei controlli. Ma c’era un tale casino che non sarebbero stati in grado di avere il controllo della situazione, tra tutti quelli che morivano, nessuno chiedeva niente, qualcuno moriva, lo seppellivano, restava a terra due giorni…

Quindi in questo modo sono arrivato di nuovo ad Auschwitz, quindi di nuovo nudo, di nuovo il bagno, di nuovo la visita, con un medico delle SS, qualcuno è stato mandato via, e ci hanno mandato al blocco 28, diretto dal dottor Ivan Sapajka, un prigioniero, di Cracovia.

Ad Auschwitz, contrariamente a Birkenau, comandavano i polacchi, c’erano anche austriaci e tedeschi, ma soprattutto polacchi.

Per un paio di giorni lì i ragazzi mi hanno aiutato un po’ a riprendermi, mi hanno dato delle medicine. Gli ebrei avevano tutto, si erano portati tutto da casa, perché gli avevano detto che sarebbero andati in un campo di lavoro e quelle medicine poi finivano all’ospedale.

E quando mi sono ripreso mi hanno assegnato al Kommando di costruzione dei binari ferroviari – un lavoro durissimo, da infarto. E ho lavorato una settimana. Era ormai giugno. Giugno del 1943. Eravamo stanchissimi.

Dopo una-due settimane  al massimo, per il caldo, la fatica, la mancanza d’acqua – anche se c’era il fiume lì vicino non ci era consentito muoverci – ho pensato che sarei morto.

Un giorno, dopo l’appello, sono tornato alla baracca, ero esausto e disperato, e sono andato dal mio compagno che lavorava in cucina e da un altro e gli ho detto che quel giorno avevo deciso di andare a uccidermi al filo spinato. Che avevo lasciato due righe per mio padre. Gli ho detto: “Se riuscite a sopravvivere andate da lui, raccontategli di questi miei ultimi momenti”.

E uno mi dice che ero pazzo, che ormai i russi erano alle porte, e di andare in cucina, dove lavorava un polacco, un cracoviano.

Mi dice: “Il Kapo è di Cracovia. Va’ da lui. Si chiama Nierychlo Franciszek, è di Cracovia, è un tuo concittadino”.

E il giorno dopo sono andato da lui, mi sono presentato, mio padre era un musicista, sapevo che avevano suonato insieme in un’orchestra di Cracovia.

  Come ti chiami? 

– Karol Tendera e mio padre Stanislaw Tendera.

– Ah sì me lo ricordo, abbiamo suonato insieme.

– Che ci fai qui?

– Sono stato catturato per strada. 

Non gli ho detto la verità.

Allora dice che in cucina non mi sarebbe mancato da mangiare, in cucina era caldo e si stava bene, fa una telefonata al capo della cucina, uno slesiano, e gli ordina di prendermi.

E il giorno dopo ero già in cucina. E in cucina ho lavorato per gli ultimi 7-8 mesi, fino al 30 ottobre 1944.

Perché quel giorno l’esercito russo era già arrivato a Wloclawek e da Auschwitz i nazisti mi hanno trasferito a Leiberitz. Tralascio di raccontare del mio lavoro lì, perché è più importante che in quel campo ero stato coinvolto nell’organizzazione ZOOF, creata da Witold Pilecki. Ero membro di questa organizzazione e mi occupavo di organizzare i pacchi per i fuggiaschi.

Cucinavo le zuppe per sfamare polacchi, ebrei, ma anche tedeschi. 5-6 pentoloni di zuppe e uno era sempre per sfamare chi ne aveva bisogno.

E così il 30 ottobre 1944, in treno, ovviamente seduti per terra, ci hanno trasferiti a Leiberitz. C’erano dei campi di lavoro, c’erano delle cave, con molti sottocampi, più di 40 sottocampi.

Anche a Leiberitz  nelle baracche c’erano pancacci di legno, pidocchi e pulci, ovviamente.

E lì abbiamo abitato fino al 7 maggio. Dall’8 maggio sono diventato un uomo libero.

Questo è il lasciapassare, datato 8 maggio, firmato dal comandante Panike che permetteva di viaggiare con qualsiasi mezzo fino a raggiungere il luogo di residenza.

L’8 maggio 1945 abbiamo ricevuto questo lasciapassare, il campo era ormai vuoto, non c’erano più SS.

L’8 maggio, la mattina presto, quindi, usciamo, il campo è deserto, la porta aperta.

I miei compagni hanno cercato di convincermi di andare alla mensa, ma io volevo andarmene il prima possibile per paura che i tedeschi ci ripensassero. I tre compagni che erano andati alla mensa si sono intossicati perché il cognac era avvelenato.

Io sono scappato per i campi insieme a due varsaviani fino alla più vicina fattoria. Siamo arrivati a una grande fattoria, un kolkoz, molti maiali, cavalli. Ci avviciniamo. Escono due uomini e ci chiedono cosa vogliamo, ci presentiamo, diciamo che siamo ex prigionieri e rispondiamo che vogliamo cambiarci e mangiare qualcosa, perché siamo affamati.

Ed è venuto fuori che erano cechi: due cechi e una ceca. Ci dicono che avrebbero ucciso un maiale o un’oca per darci qualcosa da mangiare. Chiedo chi fosse il direttore di quel kolkoz e rispondono che era un tedesco che il giorno prima o quello prima ancora aveva ucciso tutta la sua famiglia, moglie, due figlie adulte, il cane e poi si era suicidato. Aveva scritto una lettera. E c’erano ancora delle tedesche.

Gli uomini avevano paura dei russi, che sparavano agli ufficiali, avevano paura di essere uccisi.

Due figlie, due belle ragazze, una di 18 e una di 20 anni e la mamma, anche una bella donna.

Ho fatto amicizia con queste ragazze, due belle ragazze, quella più grande mi piaceva di più, una ragazza robusta, simpatica, Anna. Ma non c’era niente per cambiarsi. Il giorno dopo sono arrivati alla fattoria due ufficiali tedeschi. Erano venuti per prendere dei vestiti. Senza cintura, senza berretti, senza distintivi, senza mostrine. Terrorizzati. Cercavano vestiti, di qualsiasi tipo, anche sporchi, rotti, purché fossero vestiti civili.

I russi avevano l’ordine di violentare le donne: “siete l’esercito vincitore, avete il diritto di fare quello che volete”.

E loro supplicano per avere dei vestiti, di chiedere dei vestiti ai vicini, altrimenti sarebbero stati fucilati.

E mi hanno fatto pena, avevano mogli e figli. Allora avevo ancora un po’ di fede, sono cattolico, anche se mio padre non era molto praticante.

Io dico a Staszek, il ceco, di prendere e attaccare il cavallo al carro e di andare nel paese vicino a prendere vestiti civili.

E Staszek mi dice: “Di cosa ti preoccupi, sono nazisti, fregatene. Che li fucilino i russi”.

Io gli chiedo se è cattolico. Perché io ho un altro atteggiamento nei confronti della vita umana.

Allora gli chiedo di farlo per me, su mia richiesta, anch’io e i miei compagni avevamo bisogno di vestiti civili per andarcene. E così siamo andati a prendere dei vestiti, una quindicina di magliette.

Posso dire di aver salvato la vita a due tedeschi.

E quando sono usciti, già in abiti civili, uno di loro dice: “Karol, forse ci vedremo ancora, non ho niente da darti per ringraziarti, per ricompensarti, né l’anello, né l’orologio, né soldi, né documenti, ho un portafoglio e su ogni lato di questo portafoglio c’è impressa l’immagine dell’imperatore. Lavoravo in un ufficio in Germania, prima della guerra, e lì, quando sono andato via, mi hanno dato questo portafoglio per ricordo. E così per curiosità gli ho chiesto chi fosse il suo capo. Hitler è stata la risposta.

E me l’ha dato. Adesso ve lo mostro.

Qui ci sono gli imperatori e l’ultimo qui è Bismark, ci sono le firme e il motto sotto ogni immagine: Non ho tempo per essere stanco, Impara a soffrire e non a lamentarti, Il re è il primo servo dello Stato, Noi tedeschi temiamo Dio e null’altro (il motto sotto l’immagine di Bismark).

Ma ad Auschwitz non avevano paura di Dio, quando uccidevano uomini, donne e bambini?

Qui in questa foto, dopo un incontro, si vede che mi hanno regalato delle rose, 20 rose, dei dolci, succhi, marmellate…mia moglie una volta mi ha chiesto se stessi tornando da un matrimonio visto quanti fiori avevo. Meglio che mi regalino un cognac, che lo bevo con piacere e mi fa bene al cuore.

E da quel momento mi regalano del cognac, come ho chiesto a voi.

Un’altra volta una signora mi ha chiesto se poteva baciarmi e mi ringraziava tantissimo.

Naturalmente ho raccontato solo una parte di tutto quello che potrei raccontare, comunque spero di aver arricchito le loro conoscenze sul campo di Auschwitz.

C’erano molte trappole nella vita del campo. Ma Birkenau era proprio una fabbrica della morte, si veniva portati lì per essere sterminati.

A Birkenau non solo io, ma anche altri hanno perso la fede in Dio. Quando si vede che in pieno giorno i bambini venivano portati alle docce, e si sapeva cosa significava, che le donne anziane venivano portate alle docce. E si sapeva cosa volesse dire essere portati alle docce…

Un giorno arrivano 14.000 soldati russi, giovani, 20-25 anni, ma non c’era posto per sistemarli. Li misero nel bosco vicino al crematorio per una settimana. Era ottobre, faceva freddo, pioveva. E gli hanno ordinato di aspettare.

Ogni giorno portavano alle docce 2500-3000 persone e una volta al giorno arrivava un pentolone di zuppa. Una volta al giorno.

2500 al giorno. Gli ci è voluta una settimana per sterminarli tutti. E noi tutti vedevamo quello che succedeva

La stessa cosa l’hanno fatta con i varsaviani, dopo il fallimento dell’insurrezione di Varsavia, donne, bambini, uomini, giovani, anziani…

Era una fabbrica della morte, ho assistito a un genocidio.

E l’ho detto al cardinale Dziwisz: non credo in Dio. Sono cattolico, perché sono stato battezzato, ma ho perso la fede.

E Dziwisz mi ha risposto che avendo visto quelle cose posso aver perso la fede. E mi ha chiesto se mi fossi riavvicinato alla fede. Ho risposto di no. Non può esistere un Dio che ha potuto permettere queste cose.

Evito di parlare di questo perché non mi accusino di essere ateo. Sono semplicemente non credente. Sono un uomo onesto, ho molti amici, molti mi vogliono bene, ma ho perso la fede.

In questa fotografia ci sono io con il presidente della Repubblica Federale Tedesca, Joachim Gauck.

Mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto di poter fare una fotografia insieme.

Il presidente della Germania gli ha firmato la fotografia e il nostro premier Tusk non si è degnato di rispondere.

Anche se ho vissuto questi anni difficili, non ce l’ho con i tedeschi, ho molti amici tedeschi, abbiamo contatti amichevoli, vengono qui, io vado da loro. Noi slavi non proviamo rancore. Me lo chiedono se provo un desiderio di giustizia, di vendetta. Ma io non ho niente contro i tedeschi di oggi, non hanno nessuna colpa. Quello che ho visto ad Auschwitz, a Birkenau, l’hanno fatto i nazisti. Non ce l’ho con i tedeschi, sono loro amico. E lo sottolineo.

Qui c’è un’altra fotografia con il console generale a Cracovia. Mi invita a pranzo, ha sempre partecipato ai funerali dei miei ex compagni di prigionia. Io non sono nemico dei tedeschi, sono loro amico.

– Come ha conciliato quegli anni difficili, di sofferenza con la vita normale, la famiglia, i figli, i nipoti?

– Sono tornato che ero un giovane scapolo di 24 anni, ad Auschwitz avevo conosciuto alcune persone importanti che mi hanno facilitato la vita, nel senso che ho avuto subito un lavoro, poi l’appartamento, sono stato aiutato. E poi mi sono spostato. Ma non è stato un matrimonio felice. Era una bella ragazza, giovane, ma un po’ stupidina e ha cominciato a tradirmi con i colleghi di lavoro.

Anch’io avevo molte colleghe al lavoro, poi ho fondato un coro, suonavo la chitarra, potevamo comprare bei vestiti per le donne, come direttore, avevo molti fondi. E lei era gelosa.

E adesso questa è la mia seconda moglie, l’ho spostata che era una signorina un po’ avanti con gli anni. Insomma, avrò una buona assistente per la vecchiaia.

Dei fratelli solo io sono ancora vivo, mia madre era ungherese, mio padre musicista.

– Sul sito del museo di Auschwitz c’è scritto che lavorava come barbiere.

– Prima di essere deportato ero stato apprendista da un barbiere, ma non ho mai lavorato come barbiere né prima della guerra, né nel campo. Mio fratello era parrucchiere per donne.

Io poi sono andato a scuola, l’istituto tecnico, studi di ingegneria. Questo è il mio bigliettino da visita.

– La ringraziamo molto.